Mark Thompson (Sheffield 1959– ), letterato e storico, lavora nella History School della University of East Anglia (Oxford) come reader in Modern History. Ha trascorso gran parte degli anni '90 in Croazia come giornalista e ha collaborato a lungo con le Nazioni Unite per l'operazione di mantenimento della pace nella ex Jugoslavia.
Dal risvolto di copertina del libro:
Agli albori del 1915 l'Italia è una nazione ancora da forgiare: gli italiani devono temprarsi in una solida unità nazionale. La soluzione è la guerra, la fucina il campo di battaglia. Più alto sarà il sacrificio, più nobili saranno i risultati. A pagarne il prezzo saranno i giovani costretti in un fronte che corre per seicento chilometri e che combatteranno in un biancore di pietre e di neve che dura tutto l'anno. Intorno a loro l'assordante fuoco di sbarramento, l'insostenibile tensione dell'ora zero, l'inferno della terra di nessuno.
Anno zero: i civili sul fronte italiano
p.154: "… il Comando supremo di Cadorna decretava anche le evacuazioni di massa. Chi viveva entro 500 metri dalla "zona delle operazioni militari" doveva trasferirsi. Molti villaggi vennero di fatto svuotati. In tutto più di 40.000 civili furono evacuati durante il primo anno di gerra. Alcuni vennero inviati ad appena qualche chilometro di distanza; altri però, fino al 1919 furno speiti in un luogo imprecisato, a distanze inimmaginabili dalla loro residenza e dalla propria casa, dalla Sicilia alla frontiera francesce. Alle famiglie venivano concesse poche ore per raccogliere tutto quello che riuscivano a portare via, poi venivano scortate nei punti di raccolta a Udine e a Palmanova per essere schedate, disinfettate e vaccinate contro il colera e la dissenteria, e infine trasferite alle loro destinazioni, dove non erano stati preparati campi profughi e dove non era stato predisposto alcun coordinamento con le autorità locali. Solo quando l'offensiva autriaca, nel 1916, spinse quasi 80 mila italiani ad abbandonare l'Altopiano di Asiago, il governo si accorse che i sussidi per i rifugiati dovevano essere resi più sistematici. Anche allora, però, a differenza di quanto accadeva in Francia o in Gran Bretagna, non venne istituito alcun ente centrale per gestire la questione degli internati. Il clima di sospetto ufficiale e popolare era onnipresente: quella gente poteva anche essere 'redenta' ma si trattava pur sempre di sudditi austriaci. Per le strade di Livorno la gente sputava sugli evacuati:
'Tedescacci, siete venuti a mangiare il nostro pane'Venivano trasferiti su convogli scortati dalla polizia. I loro spostamenti erano spesso limitati. In alcune località, gli insegnanti e i sacerdoti li aiutavano con la beneficenza. Nonostante tutto, questi profughi erano persone pratiche, pronte e trarre il meglio da ogni situazione, perfino da quelle strane derrate (riso e pasta erano praticemante sconosciute nel Friuli orientale prima della guerra). Oltre a ricevere la diaria dallo stato, potevano svolgere un lavoro pagato. Nel marzo del 1916 un rapporto sugli sfollati asburgici italiani in Abruzzo rileva che questa gente rimpiangeva
'la tranquillità che ha perduta ed il benessere che crede per sempre tramontato, che non sa se mai più portà riacquistare'ma anche che
'non v'è il rancore del vinto, non v'è odio'.La vita da sfollati era particolarmente dura per gli oltre 10 mila sloveni che avevano dovuto trasferirsi in Italia. A parte il trauma dello spaesamento, pochi di loro riuscivano a comunicare con la popolazione locale, che li aborriva ancor più dei profughi italiani."
Una miscela di gas a base di cloro e fosgene
p. 187: "Il 29 giugno una miscela di gas a base di cloro e fosgene venne liberata sopra la linea italiana. Dopo una notte tempestosa, il vento era cessato poco prima dell'alba e gli austriaci avevano pensato di interrompere l'operazione. Poi si era levato un debole vento di sudest e vennero aperte le tremila bombole. Nubi di gas bianco sporco discesero verso gli italiani perplessi, prima facendo appassire le foglie e l'erba e poi soffocando le vedette e i soldati in prima linea.
Gli uomini cadevano in ginocchio, con gemiti strozzati, gli occhi vitrei, la schiuma alla bocca, e morivano stringendosi convulsamente lo stomaco con le mani.
Le loro primitive maschere antigas, fatte di strati di garza imbevuti in una soluzione alcalina e occhiali protettivi, erano state distribuite non molto tempo prima ma molti soldati, ritenendo superflua la precauzione, le avevano perdute o danneggiate.
Nelle seconde linee, gi uomini si guardarono intorno in preda al panico alla ricerca delle loro maschere, non sapendo che erano inutili contro il fosgene. Circa duemila uomini delle brigate Brescia e Ferrara morirono a causa di quell'attacco e altri cinquemila rimasero intossicati. Eppure, come i tedeschi a Ypres nell'aprile del 1915, quando erano stati utilizzati per la prima volta i gas, gli austriaci erano troppo spaventati dalla loro stessa arma per cogliere l'opportunità da essa creata (e a ragione: ebbero quaranta morti e duecentododici feriti a causa del gas). Avevano guadagnato un po' di tempo senza migliorare la loro posizione strategica; alla fine di quel giorno gli italiani avevano già ripreso il terreno perduto la mattina.
I superstiti e le squadre dei soccorsi rimasero sconvolti alla vista degli uomini morti ai loro posti di combattimento, colti alla sprovvista e tanto rapidamente da non aver nemmeno tentato di scappare. Il caporale Valentino Righetti (19° Fanteria, Brigata Brescia) era tra quelli che erano stati inviati su per la collina verso la sera del 29: si era chiesto come mai la sua unità facesse ritorno in prima linea appena un giorno dopo averla lasciata.
Mentre raggiungeva la sua trincea, col favore delle tenebre, era rimasto perplesso a trovarla piena di soldati. Il silenzio era completo: dovevano essere tutti addormentati. E stavano ancora dormendo alla prima luce del giorno. Scrollò così l'uomo al suo fianco:
Le stellette e le parti metalliche dei fucili erano verdi. L'orrore crebbe quando furono scoperte delle mazze ferrate nelle trincee. Erano state usate per finire le vittime dei gas."