Di qua e di là dal Piave dopo Caporetto: dodici mesi di durissima occupazione nemica.

Mario_Bernardi Mario Bernardi (Oderzo 1931- 2015).
È stato dirigente per molte case editrici italiane (Einaudi, Electa, Baldini&Castoldi e Marsilio) e ha collaborato alle pagine culturali di giornali e riviste occupandosi di critica letteraria e artistica.

Nel suo libro ha ricostruito gli eventi bellici che portarono alla disfatta di Caporetto, ma soprattutto ha dato voce a coloro che vissero i dodici mesi dell'occupazione straniera. Si tratta di testimonianze raccolte nel corso di anni, ritrovate nei diari di persone all'epoca bambini o adolescenti.

Dall'Introduzione del libro:

Le ricerche storiche condotte da molti studiosi della prima guerra mondiale non si sono occupate di fatti e di fenomeni sociali che ebbero come protagonisti un gran numero di civili non belligeranti. Questo libro è stato scritto per dare voce al milione di uomini e donne che rimasero sulla riva sinistra del Piave e furono infelici e inermi protagonisti di un'attesa durata poco meno di un anno. Dai loro diari, dalle loro narrazioni, dalle impressionanti testimonianze orali giunte fino a noi l'autore ha messo insieme un grande collage della loro vita e del loro patire; del loro pregare e soprattutto della loro muta, ma attiva, partecipazione ad una resistenza che ebbe momenti epici quasi sempre sconosciuti, perchè i protagonisti di queste strazianti verità erano tagliati fuori dal mondo ufficiale della guerra e dell'informazione. Un mondo che stava di là dal Piave e che ebbe cento e cento momenti di vicissitudini e di eroismi.

Segusino: dopo la razzia, lo sfollamento improvviso e totale.

Ponte di Piave.p. 56: "Fra tutti, quello più commovente anche perché più sofferto, fu l'esodo della popolazione di Segusino. Il piccolo comune ai limiti del territorio della provincia di Treviso con quella di Belluno, è posto nella stretta gola dove il Piave, dal territorio feltrino, sbocca nella pianura trevigiana. Qui, un intero paese di circa tremila abitanti fu costretto all'improvviso sfollamento per lasciar posto alle truppe tedesche che si insediarono in acquartieramenti trincerati di fronte ai quali l'esercito italiano aveva sistemato le sue difese. La guerra di posizione non consentiva di correre rischi ed i comandi militari decisero senza indugio che l'evacuazione sarebbe dovuta avvenire in tempi strettissimi senza eccezione alcuna. Inutili le suppliche del prete e del sindaco. Inutili i dinieghi alla partenza opposti dai contadini costretti ad abbandonare i raccolti, le bestie, i foraggi ed il vino. Nessun civile avrebbe potuto risiedere nella linea del fuoco.Clelia Jager Verri lasciò un diario drammatico di questa esperienza.

"I primi arrivati furono i germanici, esseri superbi, crudeli, devastatori, facevano ogni sorta di male, si diedero subito con pazza gioia al saccheggio di guerra [...], in pochi giorni tutto fu distrutto, sperperato, bruciato. [...] Tutti venivano borseggiati in modo inumano, selvaggio; nessuno sfuggiva all'odio nemico [...]. Per ben venti durissimi giorni gli abitanti di Segusino resistettero ad ogni sorta di patimenti, avendo esposta continuamente la vita a gravissime sofferenze [...]. Quasi non bastassero tante rovine s'aggiungeva il continuo pericolo delle granate, delle bombe, degli aeroplani che fischiando notte e dì incessantemente sopra il nostro capo andando a sfasciarsi ovunque.' [...] Il 1° dicembre - comunque - venne intimato alla popolazione di abbandonare il paese in tre ore, pena la fucilazione del sindaco. Così a Segusino scomparve ogni traccia di italianità. I profughi furono divisi in due tronconi, uno diretto a Valdobbiadene per la strada più breve, l'altro costretto a risalire la montagna e - per mulattiere e sentieri impervi - ridiscendere dall'altro versante per ricongiungersi con il resto della colonna."

Da Roncadelle a Negrisia, da Faè di Oderzo a Basalghelle: una via crucis infinita.

Noventa di Piave subito dopo la fine della guerra.p. 64: "Avevo 13-14 anni quando sono partito da Roncadelle seguendo l'argine del Piave coi genitori e altri sei fratelli. Siamo stati costretti ad andar profughi perchè la guerra era arrivata fin sulla nostra contrada e sul campo invece che arare con l'aratro provvedevano i nostri artiglieri che sparavano da Saletto di Piave e radevano al suolo tutto: case e vigneti. I campi erano una desolazione e siccome avevamo ancora qualcosa da salvare, siamo partiti con un carro ed un paio di buoi caricando tutto quello che si poteva, anche gli attrezzi dei campi, perché si pensava che in qualsiasi posto che ci mandassero avrebbero potuto esserci utili oppure li avremmo venduti in cambio di qualcosa per noi e le bestie. Insieme a noi c'erano anche i miei nonni paterni. Ci siamo fermati per un po' a Negrisia per ristorarci, ma la gente ci disse di ripartire, ed allora abbiamo proseguito fino a Faè di Oderzo. Lì siamo rimasti una quindicina di giorni, dopo siamo andati a Rai di San Polo.
Passato qualche giorno, le autorità militari ci hanno ordinato di andarcene, e noi - quieti - siamo ripartiti un'altra volta arrivando a Basalghelle [...].
Appena arrivati i tedeschi ci presero le mucche, salvate miracolosamente per tutto il viaggio. Piangevamo tutti perchè, senza le vacche non avevamo più neanche il latte da bere. Non importa... tutto fu inutile. Non contenti di averci portato via le bestie hanno voluto anche il carro, e così siamo rimasti a piedi ed affamati."

San Michele di Cimadolmo: macerie e distruzione ovunque.