Cesare Pecile e la terza faccia dell'impegno universitario

di Angelo Bassani


È per me motivo di grande emozione esser chiamato a contribuire all’intitolazione della biblioteca di chimica non tanto perché la frequento da oltre 50 anni, quanto perché essa viene da oggi associata al nome di Cesare Pecile, di cui sono stato allievo. Il prof. Sambi vorrà quindi cortesemente comprendere le mie difficoltà a trovare le parole adatte ad esprimere la mia gratitudine per l’invito rivoltomi.
Un almeno equivalente ringraziamento devo rivolgere al prof. Scrimin per aver messo a mia disposizione la documentazione digitale e cartacea lasciata da Pecile in dipartimento, oltre che per la comprensione con cui ha tollerato i miei ritardi.
Mi affretto in merito a ricordare che buona parte delle citazioni che verrò facendo proviene da questo materiale inedito rispetto al quale confido di poter dare tutti i necessari riferimenti in una prossima pubblicazione nella cui redazione ho ricevuto una intensa e multiforme assistenza da parte dei prof.  Bozio e Meneghetti cui voglio esprimere qui la mia riconoscenza.
Aggiungo pure che grazie all’interessamento della professoressa Marina Brustolon, la signora Francesca Sartori mi ha cortesemente consentito  - e di questo le sono grato - di consultare la documentazione raccolta dal marito, il docente di chimica teorica Pierluigi Nordio, collega di Pecile e con lui animatore di una vivace campagna per il rinnovamento dell’università. Mi sia permesso in questa sede di esprimere l’auspicio che vi sia un interesse ad acquisire tale materiale al fine di integrare l’archivio personale di Pecile.

Sebbene il soggiorno di studio all’estero sia una tradizione consolidata, la sua preparazione, almeno per i diretti interessati, non è certamente una questione di routine e tanto meno lo era per Pecile quando a fatica l’istituto di chimica fisica usciva dal disastro bellico e riorientava il percorso di formazione dei suoi componenti dal mondo accademico tedesco a quello anglosassone.
Egli stava specializzandosi in spettroscopia vibrazionale e il caso volle che la sede dove svolgere il suo perfezionamento, durato dal luglio 1961 all’ottobre 1962, fosse presso l’Università di Berkeley con la supervisione di George Pimentel.
Nel preparare con Semerano il suo soggiorno Pecile ricorda di aver fissato più o meno 5 obiettivi, tre dei quali connessi alla sua formazione e alle ricerche in corso, mentre altri due erano di carattere più generale: seguire finalmente dei corsi qualificati di chimica quantistica e di teoria dei gruppi, e acquisire orientamenti sulla «ricerca scientifica di “borderline”, la didattica per “graduate students” e la temperie culturale in una delle più famose Università del mondo scientifico strutturata come Campus residenziale».
Una cosa che gli rimase impressa per esempio fu l’autonomia operativa di cui venne improvvisamente a disporre:



"L’imposizione della totale indipendenza di lavoro rappresenta un fattore destabilizzante nel primo periodo poiché un italiano proviene da una cultura che non la incoraggiano in giovane età. Alla barriera linguistica si aggiunge il diverso “galateo accademico”: in Europa i rapporti tra corpo docente e studentesco ruotano intorno all’autorità del primo. Negli USA invece l’interazione è considerata normale e una certa dose di disaccordo, di polemica costruttiva è addirittura incoraggiata"



Naturalmente il soggiorno in California fu ricco, anzi ricchissimo, di altre esperienze e insegnamenti e tra questi merita nel nostro contesto ricordare che all’epoca era già attiva la lega degli Students for a democratic society (SDS), mentre proprio a Berkeley, durante la fase di incubazione del Free Speech Movement, ebbe l’occasione di leggere e di ascoltare il promotore, Mario Savio, che divenne nel 1964 il leader del Comitato di coordinamento degli studenti nonviolenti (SNCC). Gliene rimase, come ricordava, una gradevole impressione di voci giovanili libere e innovative, impensabili allora, riteneva, in una nostra università.
Se non era tra i suoi obiettivi, l’acquisizione di una nuova soggettività fu certo uno dei risultati della sua esperienza californiana, tra impreviste consuetudini accademiche e inedite iniziative studentesche. Ciò gli fu molto utile al ritorno: anche se i giovani italiani non erano materialmente coinvolti nella guerra del Vietnam, nella loro parte più avvertita maturavano le stesse esigenze dei colleghi americani e Pecile, che dal 1957 era stato partecipe delle prime forme di associazionismo universitario, pochi mesi dopo il suo rientro dagli Stati Uniti riprese pienamente il suo impegno divenendo il 25 gennaio 1963 presidente della sezione padovana dell’ANPUI (Associazione nazionale professori universitari incaricati).
È, come lui stesso ricorda



"l’inizio di una impegnativa presenza sul fronte della politica universitaria che non considera mai associata e, tanto meno subordinata, ad aspetti, pur legittimi, di carattere corporativo e/o sindacale. Lo stimolo gli viene dal ruolo che sentono di dover svolgere quei giovani ricercatori delle scienze e tecnologie di avanguardia quando, reduci da una formazione nelle più eccellenti Università, sopratutto degli USA, si ritrovano a fare i conti con la realtà universitaria e della ricerca scientifica italiana così spaventosamente arretrata."



Tale attività proseguì con maggiore intensità nel periodo 1967-1970 allorché entrò  nel Comitato centrale dell’ANPUI e ne divenne vicepresidente nazionale .
Ciò fu l’occasione per incontrare alcune personalità di rilievo tra cui ricordava in particolare: Leo Valiani, l’architetto Bruno Zevi, l’on. Tristano Codignola, il filosofo Guido Calogero, il sindacalista Vittorio Foa; di questi ultimi due gli rimase un’impressione molto significativa. Per converso gli incontri ministeriali con il ministro della PI on. Gui e direttori ministeriali vari, così come con i responsabili dell’università dei vari partiti politici, «gli illuminarono l’abisso esistente tra il mondo universitario-burocratico-politico romano e quanto esigeva una vera struttura universitaria moderna».
Di ciò fece presto una diretta esperienza personale.
Approssimandosi nel 1967 la scadenza del rinnovo del rettorato - all’epoca era rettore Guido Ferro, in carica dal 1949 - quale rappresentante dell’ANPUI e in collaborazione con Ugo Mazzucato, presidente a sua volta dell’Associazione Padovana Assistenti Universitari, Pecile chiese al rettore di farsi “promotore di un dibattito programmatico nell'ambito dell'assemblea del Corpo Accademico” aperto alla partecipazione degli organi dirigenti delle due associazioni.
Ciò poteva avvenire, secondo Pecile e Mazzuccato, in conseguenza di alcune norme di legge elaborate in commissione alla Camera che prevedevano l’allargamento del corpo accademico ai rappresentanti di categorie di personale subalterno.
Ovviamente la risposta fu negativa e redatta anche in termini impropri: oltre a sottolineare che l’approvazione parlamentare era avvenuta solo in sede referente, Ferro volle sottolineare di aver sempre operato in obbedienza alle leggi dello Stato e di non voler venir meno a tale norma di condotta. Pecile e Mazzuccato replicarono di non aver mai chiesto una tale deviazione e, mantenendo il punto, sostennero che, in una fase di profondo rinnovamento delle istituzioni, stava a chi reggeva i vecchi organismi di procedere alla loro graduale trasformazione, già nello spirito della legge a venire, senza per questo trasgredire a quella vigente.
È interessante ricordare che tale argomentazione venne fatta propria dallo stesso Ferro allorché, un anno dopo la rielezione, nel 1968 motivò le sue dimissioni anche con la



"volontà di adempiere in tal modo ancora una volta a un dovere verso la sua Università, lasciando che giovani e fresche energie ne assumessero la guida in un’ora in cui il rinnovamento delle strutture richiedeva, piuttosto che l’esperienza di chi per lunghi anni aveva tenuto l’ufficio, capacità di adattamento per l’applicazione delle norme nuove che sarebbero state fra breve approvate."



Continuando la sua iniziativa Pecile divenne presto un esponente di primo piano della ANDS, la famosa Associazione nazionale docenti subalterni la cui sezione padovana, coordinata da Pierluigi Nordio, vide la partecipazione di quasi trecento aderenti.
Tra gli obiettivi di maggior rilievo vi era

"l’istituzione della figura unica del docente ricercatore universitario in un unico ruolo con permutabilità di funzioni e in condizioni di tempo pieno, come superamento della cattedra universitaria quale posizione permanente di potere che è la base caratterizzante dell’attuale struttura autoritaria dell’università, come solo fondamento valido della concezione e dello strumento del dipartimento e del principio dell’interdisciplinarità e sola valida garanzia di democratizzazione e di autonomia all’interno dell’università. "

Ciò era, come ricordava Pecile, un orientamento familiare ai docenti ricercatori del settore scientifico data la loro conoscenza dei laboratori delle grandi università USA ed Europee che veniva però respinto dal settore tecnologico e giuridico-umanista.
Come rappresentante sindacale Pecile nel biennio 1967/68 fu membro del Consiglio di amministrazione dell’Ateneo che aveva allora tra i suoi compiti la programmazione del piano edilizio 1969-1971. In tale occasione si adoperò per attivare l’attenzione dei colleghi contribuendo alla formazione di un gruppo spontaneo di azione e proposta (Gruppo Università Ottanta) comprendente professori ordinari, incaricati, assistenti, studenti, tutti impegnati con perseveranza nel rinnovamento e nell’adeguamento della struttura ed in particolare ad «informare tutti i membri delle Facoltà dell’Ateneo sulla natura dei problemi, in assenza di qualunque informazione di origine rettorale».
Ho voluto sottolineare questo appunto perché introduce una componente essenziale della battaglia politica che per una ventina d’anni lo vide protagonista del dibattito sull’università.
Dopo le dimissioni di Ferro vi erano stati il rettorato di Enrico Opocher seguito da due mandati di Luciano Merigliano che nel 1978 si candidò per la terza volta in occasione di una riunione amministrativa. A tali burocratiche modalità Pecile, inaugurando così probabilmente la sua attività di polemista giornalistico, reagì con una lettera al Mattino di Padova al fine di stimolare un dibattito per «superare il clima esistente di completa disinformazione, ancor più totale verso l’interno che verso l’esterno della comunità universitaria»; la convocazione del corpo accademico infatti, costituita da 414 aventi diritto, era prevista per il giorno stesso delle elezioni.
Nel rilanciare la proposta rigettata oltre dieci anni prima da Ferro Pecile dava voce a un disagio diffuso: dopo il suo appello le cronache del quotidiani padovani di allora - oltre al Mattino si occupavano della vicenda elettorale il Gazzettino, L’eco di Padova, Il Diario - riportano numerosi interventi di presidi di facoltà, docenti, forze politiche e sindacali. Mancava tuttavia una voce: dopo l’annuncio della candidatura il rettore non ritornò più sulla questione rimanendo in completo silenzio fino al giorno delle elezioni, in ciò aderendo ad una interpretazione delle norme vigenti, elaborata 10 anni prima all’interno della Facoltà di giurisprudenza, secondo la quale il Corpo Accademico era un “corpo elettorale imperfetto”, competente a votare ma non a discutere sui candidati. Tale posizione era, se non condivisa, probabilmente almeno accettata da molti: il decano, cui formalmente spettava la convocazione degli aventi diritto al voto nei 45 giorni intercorsi tra l’indizione delle votazioni e l’elezione, rimase in silenzio nonostante il numero e la varietà delle sollecitazioni a convocare un incontro per discutere delle candidature e dei programmi e nella rassegna stampa da me effettuata non compare mai, neanche in forma indiretta, un riferimento a interventi favorevoli alla figura del rettore uscente o alla sua passata gestione.
La scelta del silenzio, vista retrospettivamente, può sembrare una debolezza da parte del rettore uscente, ma fu invece la radice del suo successo elettorale (236 voti su un totale di 367 votanti).
La mancata convocazione del corpo accademico, di fronte al quale avrebbe dovuto esprimersi, era, unitamente all’astensione da qualsiasi commento sulle varie posizioni via via emerse, una componente essenziale della tattica mirante ad evitare che nella discussione si materializzasse una candidatura concorrente, una tattica che sfruttava appieno l’incapacità da parte degli oppositori di convocare autonomamente una assemblea e di trovare da sé un candidato valido. Concedere una o più assemblee del corpo elettorale prima del voto sarebbe stato, questo sì, un grave errore poiché avrebbe fornito ai suoi oppositori un veicolo di organizzazione che non erano in grado di procurarsi da soli e il tempo, appunto, per individuare un altro candidato credibile.
Pecile contestò il risultato delle elezioni: con la sua impugnazione di fronte  al TAR, motivata dalla asserita violazione da parte del rettore dell’articolo 51 della Costituzione secondo il quale tutti i cittadini possono accedere alle cariche elettive «in condizioni di eguaglianza», più che ottenere una invalidazione del processo elettorale, egli intendeva illustrare che non solo le norme in vigore, o comunque la loro applicazione, contro cui si era invano battuto, impedivano l’agibilità democratica delle strutture universitarie, ma che tali discrezionalità permanevano nella riforma allora in discussione.
Le sue critiche alla gestione dell’università, non solo padovana, trovarono compiuta espressione in un fascicolo distribuito ai colleghi anche fuori di Padova che egli redasse come lettera aperta a Sandro Pertini, in occasione del suo intervento all’inaugurazione dell’anno accademico febbraio del 1980, visita fortemente voluta dal rettore in una situazione di grave turbamento della vita universitaria.
Preoccupato dalla criticità della situazione padovana, Pertini volle personalmente conoscere le valutazioni di Pecile manifestandogli altresì la propria attenzione ai problemi sollevati e il docente, chiarendo i limiti dell’iniziativa, assicurò il presidente di tenere in prima considerazione la dignità della struttura universitaria, specie in tempi inquinati pesantemente dal terrorismo, impegno che mantenne anche dopo esser stato impedito in modi inusuali dal partecipare alla cerimonia d’inaugurazione.
La sua battaglia diretta a condurre il processo di scelta del rettore su un terreno di trasparenza delle procedure e di coinvolgimento effettivo del corpo accademico continuò infatti anche dopo questo incidente di percorso e gli effetti della sua azione cominciarono a vedersi alla successiva tornata elettorale del 1981 quando per un verso Merigliano si ripropose come rettore in forma pubblica mentre si materializzava finalmente una candidatura antagonista nella persona di Giovanni Felice Azzone.
Più probabilmente per avere titolo alla partecipazione al dibattito che per effettive aspirazioni alla carica, anche Pecile avanzò la propria disponibilità inviando a tutti gli elettori un documento che fin dal titolo si riallacciava al precedente pamphlet: Per il portar la toga (di Rettore).
Il risultato della prima tornata di votazioni fu che i voti ricevuti dalle due candidature di rinnovamento superavano quelli ottenuti dal candidato uscente. Tale favorevole situazione non fu tuttavia ben sfruttata: il mancato accordo tra Azzone e Pecile, unitamente alla maggiore sagacia elettorale di Merigliano, diedero a quest’ultimo il tempo e il modo di recuperare l’iniziale rovescio.
Le cose però cambiarono nel 1984. Pecile riuscì ad avere finalmente una risposta istituzionale rispetto alle sue sollecitazioni. Nove presidi su 10 accolsero il suo invito a convocare i rispettivi Consigli di facoltà per discutere del nuovo rettorato e tale prassi venne seguita anche successivamente. Anzi, nel 1990, ad essa aderì anche il preside di giurisprudenza.  
Con ciò la dottrina relativa al «Corpo Accademico [come] un “corpo elettorale imperfetto”, competente a votare ma non a discutere sui candidati», contro la quale aveva tanto polemizzato nelle prime fasi della sua battaglia, veniva archiviata proprio nella sede in cui era stata formulata. Durante il rettorato di Muraro poi si realizzò l’altro suo obiettivo: il nuovo statuto dell’Università, approvato nel 1995, recava la disposizione che prevede, «per il Rettore come per i Presidi, la possibilità di un solo reincarico consecutivo».
Dicendo di questo impegno quasi trentennale per un rettorato, come lui diceva, pienamente conforme, nell’elezione e nella durata, alla Costituzione, si sono omessi accenni ad altri suoi interventi nella vita universitaria, di cui abbiamo appena sentito alcune testimonianze, o al suo ufficio di Preside di facoltà, di cui si è riferito in altra sede.
Avviandomi alla conclusione mi sembra tuttavia di poter dire che nelle loro differenti caratteristiche tali diverse attività vadano ricondotte ad una matrice unitaria.
Oltre alla didattica e alla ricerca infatti, tra i doveri delle figure universitarie egli collocava anche un terzo compito, da lui considerato di pari dignità e rilevanza rispetto ai precedenti, cioè l’attività «di conduzione e progresso delle strutture. Non si tratta» - osservava - di un generico impegno civile. «Si tratta, invece, di un serio ed oneroso dovere di ufficio verso la comunità e verso se stessi».
La radicalità innovativa di tale sua permanente linea di condotta può esser meglio valutata confrontandola con le considerazioni formulate dal rettore Muraro in uno degli incontri istituzionali susseguenti alla concessione dell’autonomia universitaria. Una delle difficoltà applicative «derivava dagli atteggiamenti psicologici riscontrabili negli Atenei»:

"Chi sceglie la carriera di docente è sicuramente attratto dalla ricerca e in minor misura dalla didattica, non certo dalla gestione, perché altrimenti avrebbe scelto un altro mestiere. Ne consegue che il docente che comincia colla gestione della biblioteca d’istituto e prosegue colla direzione di istituto, con la direzione di dipartimento, con la presidenza di corso di laurea e di Facoltà, fino ad incarichi di Rettorato, svolge sempre questi compiti con l’idea di un doveroso servizio alla comunità universitaria, non già come funzione primaria in cui realizzarsi. "

Nella ben più rigorosa declinazione di Pecile questa funzione più che un «servizio», cui si può anche rinunciare, è un «serio ed oneroso dovere di ufficio», cui si adempie come agli altri. Essa però è sopratutto un’altra cosa, è il presupposto necessario dell’autonomia universitaria: non ha senso perseguirla se manca «il coinvolgimento diretto di tutti i docenti, con accesso reversibile alle cariche direzionali, nel governo dell’ateneo».  
Nel caso, come ricordavo, del rettorato, solo una rotazione, sia pure non meccanica, può garantire vitalità all’istituto e preservare il significato autentico dell’autogoverno. Inoltre, il monopolio personale che trasforma tale investitura in una carica a vita porta con sé il germe di una prospettiva ancora più grave: la perdita completa dell’autonomia del corpo docente nell’esprimere il Rettore e, cioè, la perdita dell’autogoverno.
Qui, riteneva, è in gioco la responsabilità e la dignità del corpo docente, qui va soddisfatta la fiducia della Repubblica che concede alla corporazione docente l’autonomia della scelta del Rettore e del governo dell’Università, qui va riscattata la pienezza del ruolo dell’uomo di cultura e di scienza all’interno dell’Università. Questo ruolo, in regime di libertà e di autonomia universitaria, implica un impegno costante di ognuno dei docenti nel governo dell’Ateneo affidato alla loro corporazione.

(18/9/2013)