In memoria di Fabio De Lorenzo, un figlio della "generazione perduta".

Come credo in quasi tutte le famiglie europee, anche nella mia la Grande Guerra ha lasciato sofferenze e lutti, il più grave dei quali fu la morte in combattimento, a vent'anni, di un fratello del nonno. Questo lontano prozio era nato in un paesino del Cadore, Lorenzago, a fine Ottocento in anni in cui 'montagna' non evocava piste da sci o escursioni estive. Di lui si è sempre parlato poco in famiglia, e perciò è rimasto quasi completamente sconosciuto e, in parte, anche dimenticato, se non per il fatto che mio padre portava, in suo ricordo, lo stesso nome, Fabio.

L'unica sua traccia era una vecchia fotografia un po' sbiadita, che i nonni tenevano in cucina, in cui era ritratto assieme alla sorella e al padre, entrambi morti di febbre spagnola: il ragazzo in divisa da soldato che guardava dall'alto della parete imponeva la sua discreta presenza e rievocava l'eco lontana della Grande Guerra ogni volta che lo sguardo andava nella sua direzione.

Per il resto, sapevo vagamente che era morto per un attacco con i gas asfissianti, da qualche parte sul Carso, in un anno imprecisato tra il 1915 e il 1918. E questo è tutto … perciò non ho modo di ricomporre quale sia stata precisamente la sua breve vicenda umana, una eco della quale tuttavia sopravvive nelle molte testimonianze dei suoi commilitoni che ancora fanno sentire la loro voce: le fonti non mancano.

Ed allora possiamo immaginare di andare in guerra con lui, aiutati dalle pagine di Nicola Maranesi (Avanti sempre, il Mulino, 2014).

Il salto nel vuoto

Tutto comincia con il 'il salto nel vuoto', cioè la partenza per il fronte: il 'salto' a Fabio toccò di farlo tra i primi. Era nato nel 1894; allo scoppio della guerra aveva 20 anni, più che sufficienti per essere immediatamente mobilitato; venne assegnato come soldato al 10° Reggimento Fanteria, nella Brigata Regina che operava sul fronte dell'Isonzo.

Così da montanaro probabilmente indifferente al Regno d'Italia del quale era suddito ancora senza diritto di voto, diventò uno dei fanti chiamati a riscattare le terre irredente e venne mandato in prima linea. Partì per il fronte portando sulle spalle lo zaino della sua giovinezza: per raggiungere l'Isonzo non fece le centinaia di chilometri di coloro che arrivavano dalla Sicilia o dalla Toscana, ma si può immaginare che sotto l'aspetto emotivo l'impatto sia stato altrettanto forte.

La trincea

Trincea sul Carso. (Fonte: Europeana) Trincea sul Carso. (Fonte: Europeana)

Come documenta Maranesi, l'arrivo al centro di smistamento e addestramento era un primo tuffo in una realtà nuova, caotica, sconosciuta dove "…vi è movimento incredibile…" (pag. 32) e dove si comincia a fare i conti con le voci che circolano e con le prime immagini di morti e feriti. Ma il momento di vera rottura con la vita precedente era l'impatto con la trincea, che un soldato descrive come "…una buca che mi diede l'idea di una fogna. Era un camminamento coperto, profondo poco più di un metro, dal suolo irregolare, pieno di fango e sassi. Aveva le pareti viscide rivestite da graticci. [...] Si respirava un'aria mefitica." (pag. 36)

Per sopravvivere era necessario abituarsi velocemente alle regole di questo nuovo mondo, acquisire esperienza: molti soldati dopo pochi giorni in prima linea erano già dei veterani per i quali il fischio delle granate non era più motivo di scombussolamento e intontimento e guardavano con severità l'atteggiamento spavaldo gli ultimi arrivati: "… Aspettate qualche giorno e mi saprete dire qualcosa. Se adesso siete lindi e sazi, conoscerete come si possa fare a meno dell'acqua per giorni. Se non avete provato il tiro continuato, capirete come si possa stare delle ore rintanati in un buco acquitrinoso e dormire nel pantano senza un filo di paglia."

L'attesa prima del combattimento. (Fonte: Europeana) L'attesa prima del combattimento. (Fonte: Europeana)

(pag. 49) Lo stato d'animo era di agitazione perenne, di continuo allarme perché il rischio di morire o di essere feriti era sempre incombente, soprattutto sotto i bombardamenti, sia in prima linea che nelle immediate retrovie e nei ripari di fortuna: "… Ci ripariamo dietro le rocce ed attendiamo con l'animo sospeso la nostra sorte. Scoppia 200 metri più sù, vicino alla prima curva che fa la strada che tocca la nostra batteria. Le schegge e grosse pietre ci cadono a pochi passi; quelle sono roventi queste sono annerite dalla vampa della polvere. Rimaniamo per circa un'ora nella tremenda attesa che altri proiettili vengano a colpirci. Dopo di che ci avviciniamo in parecchi sul luogo dello scoppio degli obici per verificare i danni. Un'enorme voragine è stata aperta dal proietto, sei persone possono starvi completamente dentro, [...] " (pag. 67)

La realtà che vivono era, per questi soldati, incomprensibile e gli avvenimenti casuali; ognuno di loro escogita la propria personale strategia per restare vivo: muore chi fa l'errore di presagire la propria morte, muore chi ha paura della morte, muore chi è maggiormente attaccato alla vita…: "…Era tanto attaccato alla vita al punto che diventava sgarbato se qualcuno gli parlava, sia pure per celia, d'una eventuale morte in trincea. [...] Improvvisamente una granata colpì lo sgabuzzino e gli spezzò un gamba. [...] Una seconda granata gli stritolò un braccio e gli fendette la testa." (pag. 96)

Quale che fosse il suo atteggiamento, le sue tattiche scaramantiche, Fabio riuscì a scamparla durante le prime due battaglie dell'Isonzo: anche lui sperimentò la terribile condizione di attendere, accovacciato in trincea, la fine dei bombardamenti per partire all'attacco. Come i suoi commilitoni probabilmente conobbe la disperazione di non vedere alternative alla morte, sentita come un evento oramai certo e imminente, e il terrore di dover passare in pochi attimi dalla totale immobilità all'impeto fisico e mentale dell'assalto: "Che caos di cose. Io, e così tutti gli altri, in questi momenti non eravamo che pazzi furiosi. La nostra voce non aveva nulla di umano, era stridula, secca, come il sibilo di una sirena. La gola era arsa, e si provava la sensazione di aver sete non di acqua, ma di sangue… [...]." (p. 116)

"Avanti!"

Trincea italiana, 1917. (Fonte: Europena) Trincea italiana, 1917. (Fonte: Europena)

"Senti di trovarti in compagnia di molti , ma ti senti solo, ti vedi solo. Eppure arriva un ordine, da dove? Da chi? Nasce nell'oscurità una parola: "Avanti!" e tutti sono in piedi cercando un passaggio tra i reticolati o provando ad abbatterli. Ma a nulla servono i nostri tentativi, i reticolati sono lì, intatti." (p. 118)

"Cessato il bombardamento e viene l'ordine che dovevamo andare avanti, allora ho detto questa volta non torno più indietro davvero, abbiamo principiato ad avanzare piani, [...] e dopo con un piccolo segnale siamo saltati fuori tutti quanti [...] una confusione da non capir niente veramente in quei momenti non si capisce niente [...] chi gridava mamma moio chi piangeva chi si raccomandava ai porta feriti, [...]." (p. 128)

Ma anche chi si ritrovava vivo al termine di un attacco sferrato o subìto sapeva bene che era lontano dalla salvezza: ci poteva essere qualche giorno di tregua nelle retrovie; poi si doveva tornare in trincea. Così toccò anche a Fabio: dopo le prime due battaglie dell'Isonzo la Brigata Regina venne mandata a riposo. Il suo Reggimento rientrò in linea il 24 ottobre 1915 e partecipò ad altre tre battaglie: la terza, durante la quale festeggiò il suo ventunesimo compleanno, la quarta e, infine, la quinta che si concluse il 15 marzo 1916 quando tutto il settore dell'Altipiano di Doberdò era oramai completamente devastato dai combattimenti sempre più accaniti e dalle proibitive condizioni meteo, tanto che anche le trincee del Carso, solitamente arido, erano colme d'acqua e fango.

Bosco Cappuccio. Linea delle trincee italiane. (Fonte: L'Illustrazione italiana, 1916) Bosco Cappuccio. Linea delle trincee italiane. (Fonte: L'Illustrazione italiana, 1916)

La convivenza continua con questa distruzione totale di uomini e cose generava nei soldati un senso di orrore e repulsione estremi, ai quali tuttavia era perfino possibile adattarsi: "…sotto terra furono trovati i corpi semiputrefatti di soldati nemici che le nostre cannonate avevano uccisi e seppelliti in un colpo solo. Quei corpi [...] venivano estratti a pezzi, caricati su barelle, portati in fondo alla dolina e gettati in una fossa comune. Io e i miei commilitoni, [...], assistevamo a quell'operazione indifferenti e muti. Ricordo anzi che un giorno il getto nella fossa comune di quei miseri resti mortali, avvenne mentre noi si consumava il rancio, [...], senza provare alcuna particolare emozione. " (p. 156)

È ancora un suo commilitone a raccontarci come si presentava Monte Cappuccio, il luogo dove Fabio ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita e dove, infine, è morto: "Sono andato sopra ha una collina ghiamato monte cappuccio non posso ne so descrivere l'effetto che mi a fatto si tratta di vedere trincee distrutte, ricostruite, piante dello spessore anche di 50 centimetri troncate buche fitte alla distanza di pochi metri l'una dall'altra che profonde mezzo metro e che anche due metri poi più qua e più la si trova croci di legno fatte così provvisorie e quelle segnano un morto e sopra a tante di queste tombe ci sono delle ossa di gambe di braccio dei denti il teschio o rimaste in sepolte o scavate da qualche granata e a queste croci ci è scritto 'sconosciuto' chi potrà riconoscerlo se una granata lo a preso in pieno ? [...]." (p. 65)

L'ala che non lascia impronte

In queste condizioni Fabio e tanti ragazzi e giovani uomini che hanno combattuto al fronte, si ritrovarono a vivere gli ultimi momenti della giovinezza prima di incontrare il loro destino, che per lui si compì il 29 giugno 1916 quando, alle 5 e un quarto del mattino, una nuvola di gas asfissianti venne lanciata contro le linee italiane davanti San Martino e sotto il monte San Michele.
Questa cosiddetta 'nube vagante' inondò le trincee di prima linea e i militari italiani, scarsamente equipaggiati di maschere antigas comunque antiquate e poco efficaci, vennero pesantemente colpiti: le perdite furono ingenti.
Che cosa si può dire di un uomo morto a vent'anni? Non certo che abbia potuto realizzare se stesso prima di morire: la sua propria opera è interrotta, troncata…
Non più 'avanti sempre'; nessun ritorno, nessuna pace, nessun avvenire: bloccati per sempre in quei momenti terribili che per loro furono gli ultimi, è giusto che questi ragazzi abbiano almeno il tributo della memoria.

Questo soldato italiano morto per un attacco con i gas potrebbe essere lui... Soldato italiano morto per un attacco con i gas (L. Capello, Caporetto, perché?, Einaudi, 1967). Soldato italiano morto per un attacco con i gas (L. Capello, Caporetto, perché?, Einaudi, 1967) … questo è quello che rimane di lui. (Sacrario monumentale di Redipuglia) Lapide Fabio De Lorenzo.


Natalia De Lorenzo