A partire dall’anno accademico 1895-1896 Palazzo Cavalli ospita la Regia Scuola d’applicazione per gli ingegneri, da ormai un ventennio annessa all’Università di Padova e sino a quel momento distribuita in vari ambienti della sede centrale a Palazzo Bo.
Sebbene l'interesse dell'Ateneo per Palazzo Cavalli risalga almeno al 1882 (rettorato di Giampaolo Vlacovich), occore attendere l'8 aprile 1892 perché sia ufficializzata la cessione del complesso all'Università di Padova (rettore Carlo Francesco Ferraris), che ne diviene usuraia perpetua. I lavori per adeguare la dimora nobiliare alle rinnovate esigenze della scuola sono finanziati congiuntamente dal Governo, dal Comune di Padova e dalla locale Cassa di Risparmio. Il progetto è del professor Pio Chicchi, che lo tiene in cantiere da ormai da un decennio. All'Ingegner Giovanni Zambler spetta invece il progetto di isolamento del piazzale dalla strada, mediante una bassa mura in laterizio sormontata da una ringhiera in ferro.
Gli interventi più consistenti riguardano le costruzioni poste sul retro del Palazzo: i magazzini e le tettoie verso le Porte Contarine sono riadattati ad aule per lezioni e disegno, quelli fatiscenti prospicienti l’Arena vengono demoliti e sostituiti da un nuovo edificio a due piani, decorato ad affresco. Per una controversia burocratica con l’amministrazione comunale viene però imposta la copertura delle pitture per diverse settimane: quando finalmente le tele possono essere rimosse, l'opera è rovinata e si impone una nuova intonacatura dello stabile.
Grazie anche all’interessamento dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Veneto, mobilitato dal Ministero della Pubblica Istruzione, il palazzo cinquecentesco, sorprendentemente indicato nella documentazione ufficiale come “ex Contarini”, subisce solo “lievi modifiche”, consistenti nell’abbattimento di alcuni tramezzi in legname e nella costruzione di “poche pareti” atte a rendere i locali idonei ad ospitare gli uffici e gli studi dei professori.
Stravolgendo l’originaria conformazione a T, nel grande atrio del pianoterra si ricavano due piccoli gabinetti, quello di fronte alla cosiddetta Sala della Caccia destinato al Direttore della Scuola, l’altro impiegato come salottino per gli stessi docenti. La Sala della Caccia è a sua volta adibita a sala di adunanza dei professori: nella cella dell'adiacente scala a bovolo viene creato un bagno, mentre l'accesso con gli ambienti posti a sud è garantito attraverso l'apertura di una porta sulla parete affrescata. La Sala delle Storie Bibliche ospita una raccolta di piccoli modelli di ponti, parte della collezione oggi conservata dal Dipartimento di Ingegneria Civile, mentre la Sala delle Storie Romane è mutata in officina e provvista di macchine, utensili e attrezzi vari.
Anche al piano superiore vengono impiegati dei tramezzi per ricavare locali funzionali alle esigenze della Scuola: l’ex camera padronale di nord ovest è trasformata in Gabinetto di Architettura, quella verso l’Arena in Gabinetto di Statica Grafica. Il già elegantissimo Camerino degli Stucchi è tramutato in laboratorio per impianto fotografico annesso al Gabinetto di Ponti. La riduzione degli ambienti induce inoltre i progettisti a intervenire sul loro sviluppo verticale, creando dei controsoffitti ribassati che armonizzano l’insieme – ma nascondono le originali travature lignee.
Nel grande salone adibito a Sala delle Solennità viene conservata la parete divisoria con il vestibolo, sulla quale sono posti i busti del professore Gustavo Bucchia, già senatore del Regno d’Italia, e di Domenico Turazza, fondatore della Scuola. Una lapide commemorativa recitava:
La Scuola d'Applicazione per gl'Ingegneri / della R. Università / ebbe nell'ampliato Palazzo Cavalli / nuova più cospicua sede / conforme la legge 18 giugno 1893 / per il contributo dello Stato e del Comune / procurato dall'opera del Rettore Magnifico / Carlo F. Ferraris / essendo / Ministro della Pubblica Istruzione / Ferdinando Martini / Sindaco di Padova / Vettor Giusti / Direttore della Scuola / Domenico Turazza / Architettò e diresse / Pio Chicchi.
Non viene risparmiato il soffitto di Dorigny: pesantemente rovinato da infiltrazioni d'acqua tanto da indurre i precedenti proprietari a ricoprirlo con una mano di calce, viene giudicato irrecuperabile. O meglio, non risulta sanabile entro i limiti di spesa preventivati: come testimonia la documentazione conservata presso la Soprintendenza Archeologica, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna, gli incaricati dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Veneto, Luigi Ceccon e Augusto Caratti, auspicano un recupero dell'originale e raccomandano la pulitura del soffitto, ma sono presto costretti a rinunciare ad ogni pretesa.
Viene dunque dato incarico a un modesto pittore padovano, Giacomo Manzoni, di realizzare una decorazione a semplici fasce. “Animato da grande amore per l’arte”, come scrive Pio Chicchi nella sua relazione al Rettore Ferraris, l’artista propone invece un nuovo affresco allegorico “alla maniera del Tiepolo”: nel riquadro centrale vengono esaltate le scienze fisiche e matematiche, portatrici del progresso, mentre ai lati entro monocromi color oro sono celebrati quattro grandi uomini di scienza, Alessandro Volta, Galileo Galilei, James Watt e Andrea Palladio.
Spettano sempre a Manzoni gli interventi pittorici nella scala principale, dove il lucernario, che irradiava l’intero vano, è sostituito da un soffitto dipinto a cielo. Superate le prime due rampe, laddove è stato ricavato l’accesso diretto all’edificio ovest, l’artista opera quindi un vero e proprio “falso storico”, introducendo sopra il vano porta un nuovo “Cesare”, che scombina la sequenza prevista nella serie originale.