Nel rispetto e ad integrazione delle volontà dell’avo Marino Cavalli, così pervicacemente legato al senso di contiguità della famiglia e dei suoi beni patrimoniali, ad un secolo esatto di distanza il pronipote Giovanni Cavalli, cominciando forse a cogliere i primi segnali di erosione della linea genealogica, aveva meglio specificato i vincoli ereditari a seconda delle diverse casistiche, che si sarebbero potute presentare in avvenire.
La prima menzione era stata per l’“unico, e dilettissimo mio figliol Federico”, cui aveva vincolato le proprietà tramite un “perpetuo fidecomisso di promogenitura”. “Mancando il primogenito, e sua descendenza maschina”, Giovanni aveva previsto che il “Decoro della Casa Nostra” fosse conservato dal secondo o dal terzo nato, ovvero ancora “passar debba nella descendenza feminina d’esso federico mio figliolo” e di poi ancora di primogenito in primogenito. Estinta completamente la discendenza di Federico, era fatta erede “la mia diletta figliola Lugrezia”, sempre per vincolo di primogenitura maschile. E ancora altre casistiche in caso di estinzione anche di questa linea famigliare. Con l’obiettivo ultimo che in alcun caso “la facoltà non sia dimminuita”.
Per quanto riguarda specificamente la “Casa essistente in Padova in contrà di San Tomio”, Giovanni obbligava "essi tutti Primogeniti a conservarla senza alcuna benché minima diminuzione, non una; ma potendosi ancor d’augmentarla”.
In virtù di detto vincolo, alla morte del padre nel luglio 1683, Palazzo Cavalli passò all’allora trentenne Federico, già beneficiario dell’eredità di 10.000 ducati concessa dalla prima sterile moglie di Giovanni, la defunta Lucrezia Contarini, ad eventuali figli avuti dal marito in occasione di un nuovo matrimonio.
Stando al contratto di nozze con Elisabetta Duodo, datato 9 settembre 1673, il matrimonio avrebbe dovuto garantire ulteriori cospicue entrate ai Cavalli, essendo prevista l’importante dote di 40.000 ducati. Fu forse proprio la nuova disponibilità economica ad incentivare Giovanni e Federico nella ristrutturazione e nell’adornamento del palazzo patavino - (e forse poi il mancato saldo, rinfacciato ai Duodo nove anni dopo, li costrinse a sospendere i lavori).
Nel luglio 1682 Giovanni veniva quindi a mancare e per garanzia della dote la “amatissima nuora” chiedeva fosse stilato un “inventario delle robbe di Ca’ Cavalli che sono fuori stima in Padova in Contrà di S. Tomio appresso le porte Contarine in Casa ove soleva habitar il quondam N.H. Zuanne Cavalli”. Il documento ci testimonia come la distribuzione delle stanze fosse nel complesso sovrapponibile all’attuale, secondo la tipica conformazione della casa veneziana: un “portego da basso”, che disobbliga in vari ambienti di servizio, e negli appartamenti superiori una struttura omologa con alcune varianti funzionali alle diverse destinazioni d'uso.
Al pianterreno, le due sale affrescate rivolte verso l'Arena svolgevano funzione di camera da letto e da ricevimento per gli amici o piccoli gruppi di visitatori: oltre ai “cassaletti” destinati al riposo notturno e gli armadi per il contenimento del guardaroba, trovavano qui posto diversi tavolini con i loro “careghini” e tavoli anche da gioco, presso cui i padroni di casa potevano trattenersi in conversazione con i loro ospiti e trattare gli affari più riservati. Sul lato verso le Porte Contarine, la cosiddetta “Sala della Caccia”, adiacente le cucine, svolgeva funzione di tinello per i pranzi della famiglia.
Solo con gli inizi del Settecento anche il piano nobile giunge al suo massimo splendore, grazie al prezioso intervento a fresco di Louis Dorigny.
Il grande salone, che ricalca la struttura a T del piano terra ma con uno sviluppo doppio in altezza, era allora destinato ai ricevimenti, allietati dai musici. Il pavimento originale risulta essere stato in terrazzo veneziano, perduto è il soffitto settecentesco, smembrato il patrimonio mobile, tra cui si segnalavano un clavicembalo con coperta, delle “careghe da pero di Bulgaro”, dei grandi armadi muniti di ferri e ben dodici “barchesse […] d’intaglio dorate”, “coperte di broccadello”, che erano posizionate agli angoli. Nell’inventario del vecchio Giovanni, il “portego di sopra” risultava arricchito anche da numerosi tavolini, più di venti “quadri diversi, tra grandi e piccoli” e una Madonna greca di grande valore, purtroppo perduta. Durante i lavori di restauro voluti dal figlio, è probabile che la collezione fosse stata trasferita nel palazzo veneziano a San Vidal.
Nella stanza a nord-ovest, sopra il tinello, trovava posto la camera padronale, con una “littiera” dalla testiera ad intaglio, otto “careghini” rivestiti in damaschetto ricamato a fiori d’oro, quattro “zanolini” con piedi ad intaglio dorati e coperchi in pietra. Le pareti risultavano tappezze da cuoio dorati, i cosiddetti “cuoridoro”, su cui il pittore “spedito et universale” Niccolò Bambini aveva ritratto ad olio figure nude di dei, che già dopo pochi anni dalla loro esecuzione vennero ricoperte “affinché non fossero d’inciampo ad alcuno”, come osservava Rossetti nella sua guida del 1776.
Ricca di quadri era anche la stanza posta sul fronte giardino, il cosiddetto “camerino de’ fiori”: viene segnalata la presenza di quattro quadri d’angolo, i cantonali, e due sovrapporta, oltre a quattro quadri in tela, dedicati a Flora, Venere e uno che “rappresenta tutte le licenze”. Doveva essere questo un ambiente dove ricevere gli ospiti più intimi, come testimonia l’assenza di mobilia atta al riposo, sostituita da “dodici careghini d’intaglio dorati coperti in velluto” e “due mezze tavole con piedi a intaglio” con coperchio di stucco a fiori.
Anche le stanze poste sul lato orientale risultano destinate a incontri riservati, alla conversazione e agli affari, mentre sappiamo che sotto la potestà di Giovanni erano impiegate come camere da letto per ospitare la sua numerosissima famiglia. Troviamo elencati tavolini con figure a intaglio e coperchi in stucco a fiorami, “caregoni” riccamente decorati e mobili contenitori di tipo “barchessa” con coperte di damaschetto a ricami dorati. Ambedue gli ambienti erano impreziositi da dipinti di pregio: nella camera settentrionale trovavano posto un fregio mobile dipinto a olio e due sovrapporta figurati, attribuiti al maestro veneziano Pietro Malombra; in quella a sud alcuni quadri con figure mitologiche di autore ignoto.
L’ambiente più fastoso dell’intero palazzo doveva poi essere la cosiddetta “camera degli stucchi”, cui si accedeva dalla porta orientale del vestibolo. Erano qui conservati ben dieci quadri ad olio attribuiti ad alcuni tra i più celebri maestri dell’epoca, come Veronese e Tintoretto, Palma il Vecchio, Pietro Liberi, Salvator Rosa e Sebastiano Manzoni. La stanza era arredata con un letto ad intaglio “con sua lettiera a figure dorate e bianche”, coperte e cuscini con fiori ricamati in oro, un tavolino con piedi dorati e coperchio in stucchi a fiorami. Di questo sontuoso ambiente rimane oggi soltanto lo splendido soffitto alla sansovina decorato a motivi vegetali.