1730. Erano passati quasi sessant’anni dal testamento redatto da Giovanni Cavalli. Le sale del palazzo alle Porte Contarine si erano arricchite di preziosi mobili, quadri, stucchi e splendidi affreschi, ma restavano in fondo vuote: nessun piede infantile le aveva calpestate, non c’erano state risa fanciullesche a risuonare tra quelle pareti. Per ben tre volte la signora della Notte aveva offerto il suo figlio nero ai piccoli Cavalli, portandoli via con sé. Nella preziosa genealogia famigliare donata agli sposi Federico e Elisabetta Duodo, le pagine relative alla loro discendenza splendevano tragicamente bianche.
Il fidecommisso della proprietà passò così ai fratelli Marino Antonio e Giacomo Cavalli. Insieme ai palazzi di Padova e San Vidal, i due entrano in possesso dei numerosi beni distribuiti nel veronese e nel trevigiano, dei terreni nel vicentino e nel padovano, compresa la splendida villa di Teolo. L’eredità del vecchio Marino Cavalli veniva progressivamente dispersa, eroso il suo sogno di sopravvivere nella memoria “tattile” - negli ambienti, nei suoni, negli odori – della sua casa e della sua terra.
Pure le vicende degli ultimi eredi Cavalli continuarono fino in extremis a intrecciarsi con quelle della città del Santo. Se Marino Antonio sceglieva per sé una vita celibe, nel 1705 il fratello Giacomo aveva preso in moglie una figlia di Zaccaria Valarésso, il letterato famoso per i suoi libretti per musica, e zia dell’altro Zaccaria, amico del patriota Daniele Manin.
Da Giacomo e Adriana erano nati tre figli maschi, ma il primo si fece abate e il secondo morì in fasce. Il nuovo capofamiglia Cavalli, naturalmente Marino, provveditore straordinario a Padova, sembra fosse solito frequentare con la moglie il Collegio Da Mula, per assistere agli spettacoli che lì si svolgevano. Con la loro nipote si sarebbe estinta la casata.
Alla sorella di Marino era intanto stato assegnato il palazzo alle Porte Contarine, che la giovane Elisabetta “di singolarissime virtù” portava in dote nel 1743 al patrizio Girolamo Francesco Bollani.
Dopo più di due secoli la nobile dimora dei Cavalli cambiava così definitivamente titolazione. E insieme al nome si apprestava a mutare radicalmente anche il suo destino….
Passato in eredità al figlio di Elisabetta Cavalli, il palazzo ora Bollani seguì il destino di lento declino della stessa Repubblica Serenissima. Sotto il governo austriaco, la vedova di Giacomo Bollani, usufruttaria del bene, e il nipote Gerolamo che ne deteneva il possesso lo affittarono per nove anni all’I.R. Delegazione Provinciale di Padova, che destinò la nobile dimora ad alloggio per gli ufficiali dell’esercito. Tale locazione venne in seguito assunta dalla Congregazione Municipale della Città, finché il 26 febbraio 1840 di fronte al notaio Gaetano Zabeo venne firmato l’atto che determinava la definitiva cessione del bene allo Stato, il quale vi insediò la Dogana.
Conseguentemente alle nuove destinazioni d’uso, Palazzo Cavalli conobbe una serie di modifiche interne funzionali alle esigenze dei diversi proprietari. Mentre gli ambienti del pianoterra, impiegati come studi e salotti da ricevimento, mantennero inalterata la struttura, il piano nobile fu sensibilmente trasformato. Nel grande salone, originariamente a T, venne innalzata una parete che chiudeva il vestibolo, dando così vita a due stanze separate.
Le due camere rivolte a nord furono destinate al riposo notturno: quella verso l’Arena presentava una struttura ad alcova, con due porte laterali, l’una delle quali immetteva al vicino camerino, l’altra ad una scala in legno di collegamento con i piani superiori, funzionale per la servitù. La vecchia camera padronale sul lato ovest risultava arricchita da un camino alla francese “bene lavorato e lucidato e di sagoma moderna”. Anch’essa era affiancata da un camerino, che comunicava con la scala a bovolo collegante i diversi piani dell’edificio.
“Discendendo porzione della scala a lumaca si trova una porta munita di serramento che mette ad una stanza ricavata fra il Piano Nobile e l’anticucina [Essa è] pavimentata di pianelle, coperta da solajo, illuminata da una finestra al pavimento con vetriera e serramento”. La camera fu abbattuta sul finire dell’Ottocento, ma è ancora possibile riconoscerne l'accesso per la presenza sulla parete del profilo in marmorino, che incorniciava i varchi originariamente ricavati nei muri.
Continuando a salire la scala a chiocciola, si incontrava, a tre scalini dall’ultimo pianerottolo, una piccola porta, che dava accesso ad una “ritirata”. In cima alla scala una scaletta in legno permetteva l'ascesa all’ultimo piano di Palazzo Cavalli, dove erano stati ricavati due piccoli stanzini collegati al sottotetto del vicino stabile. Vi era poi un’altra porticina, per cui si entrava in uno “stanzino pensile pavimentato di quadri trevigiani piccoli, coperto da soffitto, illuminato con due finestre con vetriera e serramento”. Completamente ligneo, il camerino pensile fu anch'esso in seguito abbattuto e non ne rimane traccia che nei documenti.
Sono invece ancora visibili, se pur non in loco, le originali porte dipinte a soggetto agreste e motivi vegetali, a lungo attribuite a Niccolò Bambini: negli ultimi anni dell’Ottocento esse furono cedute al Museo Civico di Padova e sono oggi conservate nel vicino Palazzo Zuckermann. Immaginarle nel loro contesto originale contribuisce a farci ricordare la sfarzosità degli ambienti nobiliari e le importanti collezioni di opere d’arte e libri, che arricchivano queste sale: nell’ultimo secolo oggetto di ulteriori significative “metamorfosi”.