Le prime testimonianze relative ad un interesse dei Cavalli per l’area, in cui oggi sorge il palazzo, risalgono alla metà del Cinquecento. L’Indice d’Instrumenti, ossia il catastico della famiglia datato alla fine del XVII secolo, registra infatti in data 20 luglio 1548 la “affrancazione del sig. Odo Quarto da Monopoli” dell’affitto di una “casetta con campo, ovvero guazzo in Padova in Contrà delle Ballotte”, che ritornava al legittimo proprietario Antonio Mastellar. Quattro anni dopo, egli ne cedeva la proprietà, insieme ad altre “quattro cassette” di muro, a Sigismondo Cavalli, secondogenito dell’allora Riformatore allo Studio patavino Marino (il Vecchio). Nel 1554 l’acquisto era perfezionato con l’aggiunta di altre due case “di legname” e il pagamento di 80 denari d’oro al livellario Oddo Quarto.
È proprio il nome di quest’ultimo a richiamare la nostra attenzione, specie considerando i rapporti che lo legarono al patriarca dei Cavalli. Chi era mai questo pugliese, tornato a risiedere in quella Padova da cui originava la sua famiglia?
Servitore del capitano dell’esercito veneziano Camillo Orsini (della linea dei Lamentana) – la cui prima moglie, Brigida Orsini (dei Bracciano) sarebbe stata zia del futuro marito di Vittoria Accoramboni, Paolo Giordano Orsini –, Oddo Quarto lo seguì prima a Venezia (novembre 1529) e poi, quando Orsini venne impiegato come comandante di cavalleria nei presidi di Vicenza e Verona, nell’entroterra. Qui i due entrarono in contatto con le dottrine evangeliche dell’agostiniano Ambrogio Quistelli e nel 1537 si fecero promotori della petizione intesa a rivendicare l’ortodossia della sua predicazione, presentata insieme ad altri nobili vicentini all’allora Capitano della città palladiana: Marino (de) Cavalli. Lo stesso anno scoppiò la guerra di Zara e Quarto seguì Camillo Orsini nella campagna contro il nemico turco, per tornare a Padova solo sul finire degli anni Quaranta. Sposò allora Laura della nobile famiglia Dondi dell’Orologio e compì una serie di investimenti di in campo immobiliare, con particolare interesse nella valle della Gambarara presso Monselice dove entrò spesso in contenzioso con i frati del convento padovano di S. Maria delle Grazie.
Nel contempo Oddo Quarto rafforzò i legami con le comunità eterodosse clandestinamente residenti in città e gravitanti attorno allo Studio, a favore delle quali smerciò libri proibiti. Nel novembre 1562 Quarto fu quindi arrestato con l’accusa di essere “un grandissimo heresiarca” e di aver trasformato la sua abitazione in un “recettacolo de far congregationi”. La denuncia, sollecitata dal Consiglio dei Dieci, era stata trasmessa all’Inquisizione dai rettori di Padova, città nella quale la primavera precedente era stato eletto Podestà ancora il nostro Marino Cavalli.
Alla luce degli sviluppi successivi, compresa appunto l’edificazione del palazzo nobiliare Cavalli sulle preesistenze Mastellari-Quarto alle Porte Contarine, appaiono meno inverosimili le recriminazioni dell’“eretico” contro i suoi principali delatori: da un lato il patrizio veneziano Michele Malipiero ritenuto in combutta con i citati frati domenicani per entrare in possesso delle proprietà di Monselice; dall’altro appunto Cavalli, che l’avrebbe attaccato per danneggiare i Dondi dell’Orologio e impadronirsi delle loro proprietà.
Pochi mesi prima dell’avvio del processo contro Oddo Quarto da Monopoli, il 9 gennaio 1562 Marino Cavalli denunciava ai Savi alle Decime il possesso di “quatro casette alli Rimitani acquistate da meser Antonio di Mastelari, item quartieri doi in circha con una casetta acquistadi da messer Zampaolo dei Relogi, quelli tutti sono in Contrà di Rimittani nel borgo delle Ballotte, relati in una mia casa da stancio per mio uso”. Il compromettente nome di Quarto non compariva negli atti ufficiali.
Metà XVI secolo. Il profilo di Padova nell’area delle Porte Contarine era radicalmente cambiato in meno di una decina d’anni. Subito dopo l’acquisto dei terreni, gli edifici diroccati che vi sorgevano erano stati demoliti per far posto alla nuova casa dei Cavalli, “con brollo, corte, et corticella, serate de’ muro”. Un palazzo nobiliare a tutti gli effetti.
Dal 1569 i Cavalli entrarono in possesso anche di un’altra prestigiosa dimora a Venezia, direttamente affacciata sul Canal Grande. Alla morte di Marino, nel febbraio 1573, quest’ultima risultava vincolata da fidecommisso, mentre la proprietà padovana rientrò nel patrimonio soggetto a spartizione fra gli eredi, i figli Sigismondo e Antonio e Donata Tron, la vedova del prediletto secondogenito Giovanni, scomparso un anno innanzi il padre.
Dopo svariati appelli ai Giudici del Proprio, la risoluzione giunse nel gennaio 1577, con atto notarile di Marcantonio Cavanis: per estrazione, la “casa in Padoa in contrà delli herremitani, con brollo, corte, et corticella, serate de’ muro; confina a levante il borgo delle Ballotte, a sera la stradella che serve alli mollini, a mezodì Antonio d’i Mastellari da Padoa, a null’hora il spalto alle mura della città”, venne assegnata a Donata e i suoi tre figli.
Il primogenito Marino aveva allora sedici anni e stava per cominciare quell’importante carriera diplomatica che, sulle tracce dell’avo paterno, l’avrebbe portato alla corte dei Savoia (1591), quindi in Francia, a Praga e Roma, dove morì, con gran soddisfazione di Fra Paolo Sarpi, il 6 ottobre 1611.
Tenuta da conto anche l’istruzione di Marino il Vecchio che tutti i discendenti Cavalli potessero “cohabitar” nel palazzo veneziano “senza pagar fitto alcuno, ma solo contribu[endo] ali concieri di essa e gravezze della terra”, la casa in Padova restava – frequentemente – libera e affittabile. Nel 1585 a prenderla a pigione fu il duca di Bracciano Paolo Giordano Orsini, che, in fuga da Roma, “se ne venne alla ricca, et meravigliosa città di Venezia, di poi all’antica, et honorta città di Padova, nella quale pigliò due palazzi a pigione in luogo aperto, et rimoto dal corpo della città, che fu l’uno delli signori Cavalli posto alla muraglia nuova delli portoni Contarini vicino alla Rena, et l’altro delli signori Zeni posto al ponte di San Tomio sopra il fiume, per li orti, et cortili de quali si andava da uno all’altro”.
Il palazzo doveva per allora aver acquisito un aspetto signorile, ma non è possibile risalire alla sua esatta configurazione né tanto meno alla qualità della sua mobilia, come d’uso fatta venire appositamente dal duca, il quale, in procinto di morte, con testamento del 10 novembre 1585 ne fece ereditiera l’amata Vittoria Accoramboni. Neppure un mese dopo, la sciagurata nobildonna lo seguiva nella tomba, barbaramente uccisa il 22 dicembre proprio in Palazzo Cavalli, e il patrimonio del duca tornava a Bracciano al figlio di primoletto Virginio.
L’efferato delitto, tramandato via via con sempre più truci dettagli, alimentò intorno al palazzo padovano un’aura spettrale. Fu probabilmente con l’intento di sanarla, che a partire dalla seconda metà del Seicento il nuovo erede Giovanni Cavalli e poi suo figlio Federico si impegnarono in un consistente rinnovamento degli ambienti. Spetta a loro la commissione dell’imponente apparato decorativo a fresco e stucco, di cui ancora oggi possiamo godere la visione.