Il grande salone nobiliare incanta per la qualità degli stucchi e la spaziosità dei suoi affreschi, che denotano un sensibile scarto qualitativo rispetto al piano terra. Più attenti del padre Giovanni al variare delle mode e al raffinarsi del gusto, Federico Cavalli e la moglie Elisabetta Duodo scelsero di affidarsi ad un pittore in grado di inserire la loro dimora nella lista delle location più d’appeal dell’epoca e si rivolsero quindi all’artista amato dalle ricche famiglie di recente nobiltà, come i Widman o i Manin.
Maestro di origini francesi, ma tanto radicato nel territorio da poter essere considerato un pittore veneto a tutti gli effetti, Louis Dorigny si era già fatto apprezzare per i lavori a Ca’ Tron a Venezia, a palazzo Leoni Montanari a Vicenza e a Villa Almerico-Capra, meglio conosciuta come la Rotonda. Di poco antecedente se non contemporaneo fu il ciclo di affreschi per Ca’ Zenobio, oggi “Degli Armeni”, che presenta una struttura assimilabile a quella del nostro Palazzo Cavalli.
Chiamato entro i primi anni del Settecento a decorare il salone da ricevimenti, Louis Dorigny vi dispiegò una decorazione su tre registri: dello zoccolo a figure monocrome sono ancora riconoscibili nella parete settentrionale due divinità fluviali dalle corporature michelangiolesche. Al di sopra, campeggiano entro grandi cornici in finto stucco sei figurazioni mitologiche, mentre nella fascia più in alto trovano posto splendidi ovali monocromi con putti in atteggiamenti giocosi. Non abbiamo testimonianza della configurazione originale del soffitto, molto presto danneggiato da infiltrazioni e ricoperto a fine Ottocento dall’affresco ancor oggi visibile.
Accostandoci alle scene mitologiche della fascia centrale, possiamo apprezzare la nuova sensibilità classica, che Dorigny innesta nell’impianto decorativo di Palazzo Cavalli. Confrontando la sua Dafne, sull’angolo di nord-est, con quella di Primon al pianoterra, risulta evidente l’impreziosirsi delle forme: i corpi sono affusolati, le superfici porcellanate. La trasformazione della ninfa non la trattiene più a terra, più non notiamo le pesanti radici in cui sono mutati i piedi, bensì le fronde d’alloro con cui sembra quasi librarsi verso il cielo.
Le vicine Grazie, disposte in una posa corografica di raffinato decorativismo, giocano la loro nudità su un grado di elevata sofisticazione formale, che scioglie i corpi dalla natura carnale, rendendoli quasi astratti ideali. Il particolare lezioso della Grazia di sinistra, che trattiene tra le dita la collana di perle di cui soltanto è adornata, non presenta risvolti sessuali: in Dorigny anche il nudo è rivestito da una distaccata moralità.
Nella scena susseguente, relativa al mito di Io trasformata in vacca e poi liberata da Mercurio, la storia, che Primon aveva sciorinato nei suoi diversi episodi, viene condensata in un unico cruciale momento, ripulito da ogni violenza o volgarità. Anche l’algido cromatismo contribuisce a cristallizzare la scena, dilatando la percezione temporale dell’insieme: Mercurio sembra destinato a suonare eternamente il suo flauto per addormentare il guardiano Argo, da cui sono spariti i “cento occhi”.
La parete occidentale è un tributo alla bellezza. Sopra il rilievo in stucco della Giustizia, che sovrasta la porta d’accesso alla vecchia camera padronale, campeggia infatti un riquadro ovale con Venere e Amore. La dea ritorna ancora nel grande quadro di sinistra, circondata da festanti Amorini, che giocano con frecce e cembali. Sul lato destro, il potere della bellezza è manifestato attraverso il celebre episodio di Ercole e Onfale: acquistato come schiavo dalla regina di Lidia, l’eroe è costretto a servirla per tre anni, nel corso dei quali giunge ad innamorarsi follemente di lei e, pur di compiacerla, assume atteggiamenti sempre più effeminati. Mentre Ercole fila la lana, Onfale prende per sé i simboli della virilità, la clava e la pelle leonina.
A chiudere il ciclo, sulla parete sud-ovest, incontriamo una figurazione non narrativa alquanto singolare, per spiegare la quale viene in aiuto il volume di Cesare Ripa dedicato all’iconografia degli dei antichi. Sopra il Tempo, maestosa figura dormiente riconoscibile per le grandi ali e il piede destro posato su una ruota, si libra la Notte, circondata da stelle. La dea tiene in braccio un bambino bianco, simbolo dei sogni felici e del buon sonno, e uno nero, che rappresenta gli incubi, o il sonno eterno.
Forse un tributo a Cecilia, Jacopo e Chiara, i tre figli di Federico ed Elisabetta Cavalli morti in tenerissima età.